quando apro gli occhi mi si aprono le vene

Mese: marzo, 2013

da una lettera su diverse modalità d’espressione

Milano, 2 Marzo 2013, a un amico musicista

[…] è troppo tempo che non prendo in mano la penna e chissà quante parole inutili ho risparmiato e quanti dolorini mi sono macerata dentro a non esprimerli. Va sempre così con i miei divincolii: se faccio musica, ecco che non posso scrivere – se scrivo, non riesco a far musica.
Con quest’ultima è più semplice, è  attraverso le parole degli altri e anche quando sono io a scriverle sono note, è un altro alfabeto. Ciò che si rischia è di non capirlo, sillabarlo male, non riuscire a parlare attraverso quei segni. […]

Quando invece sento quel bisogno doloroso e fisico di parole sono impegnata tutto il tempo a cercare, sondare profondità con le antenne molli e pallide delle mie dita, ripescare antichi relitti per poi spolverarli e metterli in bella mostra su qualche scaffale dell’anima, così che guardando possa dirmi :”Ma guarda te.. che ricordi. Eppure ora che significato può avere? Ho già dimenticato? E queste cicatrici che tirano quando si fa umido?”. E’ molto, molto faticoso; quando torno su ho gli occhi a pezzi – per non parlare di quando mi dimentico qualcosa là sotto! Allora che divento intrattabile, perchè non ci sono più. O meglio, ci sono – col corpo io non scherzo, mai – ma non sono..

A volte sono convinta che mentre vivo sono in mille a vivere e c’è un baccano immenso in questa stanza di vertebre dove si riuniscono tutti; di volta in volta uno si alza infuriato e ruggisce “Adesso basta! Parlo io” ma è difficile che qualcuno gli dia retta.
Il più delle volte si stiracchiano e girandosi tutti verso le finestre fingono di avere qualcosa di molto importante a cui pensare – io lo posso proprio assicurare, non pensano a niente.

E poi c’è questa storia degli occhi che mi si sbriciolano: è assurdo, più guardo dentro a quelle voragini più mi cala la vista. Come se fossero davvero troppo distanti quelle lontananze e a furia di serrare le palpebre mi si frantumassero le iridi.
Sapessi che pioggia blu di calcinacci.. Allora mi tocca indossare lenti sempre più spesse e pesanti che il più delle volte, con la loro artificiosità, non fanno che peggiorare la situazione: a che scopo definire i contorni delle cose se poi incombe tutto quel mal di testa? Come se non bastasse, quegli occhiali mi scivolano sempre giù dal naso – non sai come diventa difficile e brutto scrivere quando ogni due parole ecco che devo ricacciarli al loro posto. […]

Quando suono invece gli occhi non servono: le cose le cerchi con le dita, coi muscoli, le orecchie mobili: non c’è niente che voglia nascondersi, anzi, è tutta una gara a venire fuori, come delfini quando incrociano la giusta scia di nave.

Fare musica per me è seguire le tracce verso un posto equilibrato, un bel posto – che non vuol dire felice, o triste, o qualcosa, semplicemente un luogo dove è tutto al posto giusto, dall’inizio alla fine. Ogni tensione, ogni cambio di posizione in musica è sempre per far vedere da diverse angolazioni quel luogo terso e distinto dove i musicisti vanno a sognare nelle notti bianche.
Loro sì che sono persone piacevoli con cui stare in compagnia in una stanza anche di modeste dimensioni – perchè non c’è niente che amino di più dell’ascoltare.
Su quelle lontananze dall’aspetto minaccioso fanno i funamboli, tra fili di accordi; quando stonano devi immaginare che uno di loro abbia fatto lo scherzo a quello che veniva prima e gli abbia tirato via da sotto ai piedi un piolo–alterazione: poi ci ridono sopra, ma lì per lì è un momento bruttissimo. E’ il buco nel cielo di Oreste di cui parlava Pirandello, il sassolino nell’insalata fresca, l’impronta canina sul marciapiede asfaltato di recente: ci sarà sempre, è già capitato e ricapiterà sicuramente ancora, ma uno non se lo aspetta mai e tutto sommato vorrebbe non sentirsi mai cadere laggiù, anche se ce l’ha sempre proprio sotto al naso. [..]

La musica in me ha sempre avuto l’effetto di riportarmi dolcemente a una dimensione vivibile della realtà, allo scambio, alla  convivenza fra le cose, alla simbiosi col dolore, alla volubilità del tempo che scandisce fraseggio e respiro.

Quando parlo attraverso la musica so che mi comprenderò e sarò compresa – certo, devo parlare bene, ma se così non fosse non farei musica, suonerei e basta. E non ci deve essere per forza qualcuno ad ascoltare, basta solo quel sentimento di espressione libera e completa; e poi, fintanto che ci saranno orecchie, si potrà sempre sentire. […]

cecità (#7)

nell’atrio fra resti
due ciechi si toccano

in alto brilla l’intonaco
vertigine lattea allo sguardo

sui corpi batte la pioggia
come denti di figli tremanti

nessuno osa guardare.

con le mani la pelle
due ciechi tormentano
e domandano assurdi
di essere senza.

in alto brilla l’intonaco
e un buco nel cielo di cartapesta

dopo, un lampo – inaudito.

incredulo cerca uno solo
e nel niente si muove un lamento.

nell’atrio di resti
rimane un cieco
e singhiozza.

sulle costole picchiano lacrime
come denti di amanti impauriti.

che nessuno osi guardare.